Molto spesso le quarte di copertina mentono, sono fuorvianti, promettono e non mantengono. Quarte che promettono libri esaltanti nascondo libri mediocri, quarte che annunciano capolavori celano libri noiosi e senza qualità. A volte però accade il contrario: che una quarta prometta un libro qualunque e il libro in questione si riveli invece molto ma molto di più. È il caso – a mio parare – di Sezione suicidi di Antonin Varenne. Presentato nella quarta come l’ennesimo noir con commissario problematico e bizzarro alle prese con una serie di omicidi da collegare e una matassa di cui trovare il bandolo, Sezione suicidi è invece un romanzo che del poliziesco classico ha ben poco, ed è invece un’amara, lucida e tristissima riflessione sulle prigioni in cui l’uomo viene rinchiuso, o in cui si rinchiude da solo, sulle torture a cui gli esseri umani vengono sottoposti o si sottopongono volontariamente.
Sospettato di aver spinto al suicidio un collega accusandolo di atti gravissimi e non dimostrati, il tenente Guérin viene esiliato nella Sezione Suicidi (che nemesi!) della polizia di Parigi. Il suo lavoro, ormai, consiste nell’accertare che le vittime si siano effettivamente tolte la vita in maniera volontaria. Guérin – un uomo basso, storto, perennemente avvolto in un lunghissimo e ridicolo impermeabile giallo – è sempre in bilico tra lucidità e follia, si strappa la carne dal cranio ed è persuaso che niente al mondo sia casuale, che tutto sia parte di un disegno più ampio, che ogni avvenimento sia in qualche modo collegato agli altri. Così anche una serie di suicidi, che ai suoi occhi si distinguono dagli altri per qualche impercettibile dettaglio ma che il lettore fatica a trovare sospetti, gli appare come una macchinazione di qualcuno che gioca a fare il dio con le vite degli altri. Trascinandosi dietro il suo vice, il biondo spilungone Lambert che ogni volta indossa la divisa di una squadra di calcio differente, in una Parigi piovosa e periferica, Guérin nella sua indagine s’imbatterà nell’indagine dell’americano John P. Nichols, arrivato a Parigi in seguito al suicidio del suo migliore amico, un fachiro omosessuale eroinomane dalle conoscenze piuttosto sospette.
Chi cerca una storia che riservi brividi, palpitazioni, colpi di scena o anche semplicemente un noir dalla struttura classica, si allontani da questo libro in cui non c’è un assassino, non succede gran che, la storia si trascina piuttosto lentamente pervasa da una tristezza cupa e umida che a tratti sembra quasi soffocare il lettore. Non sono gli avvenimenti né la costruzione – imbastita da Varenne senza cura eccessiva – di una sorta di complotto politico internazionale a rendere questo romanzo una lettura affascinante, bensì le atmosfere, la tristezza struggente dei personaggi e delle situazioni, quel senso di sotterranea consapevolezza che, pur trattandosi di vicende lontanissime dal nostro quotidiano, si assista a qualcosa che ci coinvolge in prima persona in quanto esseri umani.
La lingua è spesso troppo caricata e forzata, talvolta cede a immagini metaforiche o simboliche crude o al limite dello scontato ma, se in un altro contesto potrebbe risultare irritante, risulta invece efficace nell’evocare questa atmosfera di angoscia strozzata. Varenne riesce a costruire un romanzo che – pur strizzandogli l’occhio con vari riferimenti – fuoriesce dalla categoria del noir e non è apparentato con i libri della Vargas – ai quali è stato paragonato e con i quali condivide ben poco oltre a certe atmosfere parigine.
Antonin Varenne, Sezione suicidi
titolo originale: Fakirs
traduzione di Fabio Montrasi
Einaudi Stile Libero, 2011
pp.277, euro 18
pp.277, euro 18